Sogni e delusioni di chi sogna una vita in comune
Il cohousing offre uno stile di vita inclusivo, sostenibile e collaborativo, basato su un rinnovato senso di comunità intenzionale, ma il percorso per trasformare un sogno in realtà può essere spesso tutt’altro che agevole.
Nelle nostre esperienze di progettazione e accompagnamento abbiamo avuto modo di testare le speranze che muovono le persone a scegliere questo modo di abitare, ma allo stesso tempo le difficoltà che si incontrano per rendere questa visione concreta. Le stesse difficoltà ritratte qualche giorno fa da un interessante articolo del The Guardian “Hope and heartbreak for New Zealanders dreaming of a communal life” che mette alla luce come gli esperimenti condotti per realizzare nuove forme di abitare condiviso, anche a latitudini diverse, incontrino le stesse aspirazioni ma anche gli stessi ostacoli.
Ne è un esempio il caso dell’Urban Habitat Collective, uno degli ultimi tentativi in Nuova Zelanda di realizzare un cohousing. 23 famiglie con il supporto di Bronwen Newton, avvocato e promotrice immobiliare, hanno cercato di realizzare un progetto di vita in comune, in contrasto alla crescente solitudine abitativa, in un Paese in cui, come riporta l’accademico Mark Southcombe, << l’investimento immobiliare è un’ossessione nazionale e ha contribuito a portare i prezzi delle case a livelli record nel mondo >>.
<< C’è bisogno di ri-socializzare l’abitare >> aggiunge, e il cohousing per il suo modello condiviso caratterizzato da residenze private con in più spazi e servizi in comune, sembra ben rispondere a questa esigenza.
Nel 2019 Newton e il gruppo di famiglie acquistano un sito a Wellington dove realizzare due edifici con spazi per cenare insieme, un tetto praticabile che diventa spazio per la socialità, un’officina per biciclette, parcheggi in car-sharing e un ampio giardino comune. Tuttavia gli sviluppatori hanno avuto difficoltà a comprendere la natura dell’intervento e il contestuale aumento dei prezzi di costruzione ha spinto molti a rifiutare il lavoro così come le banche a declinare i finanziamenti. Sebbene i costi sostenuti, Newton come portavoce del gruppo commenta << Non mi pento di averlo fatto. [Ma] mi pento ancora di non avere un edificio. È ciò che ci siamo prefissati di fare, è ciò per cui abbiamo lavorato, è ciò che vogliamo ancora >>.
Dall’altra parte però questo schema non è sempre fallace e può produrre anche esiti positivi come nel caso di un altro cohousing terminato meno di un anno fa sempre a Wellington. Anche in questo caso uno dei fattori che ha mosso gli abitanti verso questo modello è stata la constatazione di non potersi permettere un alloggio secondo i prezzi del libero mercato. I sei nuclei hanno così comprato un terreno e messo in piedi un’impresa edile. Ciò che ha rallentato notevolmente l’operazione è stato il tempo necessario al rilascio del prestito di costruzione in quanto il richiedente non era un soggetto incasellabile secondo delle classiche griglie giuridiche.
Ancora altri progetti sono falliti ma altri hanno avuto buon esito.
<< Viviamo vicino alle persone a cui teniamo e abbiamo uno spazio in cui possiamo mantenere vive queste connessioni. Diventiamo una comunità >> afferma una delle abitanti del progetto realizzato.
Queste parole e queste esperienze mettono in evidenza come tra le criticità ricorrenti vi sia lo scarso riconoscimento istituzionale di questo soggetto atipico che si fa promotore un modello innovativo e non convenzionale. Non è necessario dunque solo prevedere un adeguato processo di realizzazione, che come team di professionisti cerchiamo costantemente di perfezionare secondo un approccio metodologico incrementale e sperimentale di learning by doing, ma anche risolvere le “istanze fondamentali“ della questione casa, come afferma la Newton. Lavorare quindi per un rinnovamento delle procedure edilizie e fiscali e per innovare il rapporto tra pubblico e privato a vantaggio delle comunità intenzionali che scelgono di contribuire alla realizzazione di “città e comunità sostenibili” (11.SDG) e che << cercano di fare qualcosa di diverso, a grandi costi e rischi personali >>.